"Figio, recordete, che Gravo xé figia de Quileia e mare de Venessia" . ricordati, che Grado è figlia di Aquileia e madre di Venezia, dicevano i "veci de l'isola", i vecchi, quando raccontavano le loro storie. Ma storicamente questa frase è ineccepibile. Come si sa, la storia di Grado è strettamente legata a quella di Aquileia e del suo porto fluviale, sorto lungo le rive del fiume Akilis-Natisone, con lo scalo, gradus, sul mare. Il fiume verrà deviato nel 361 con la guerra di Giuliano l'apostata e l'attività portuale trasferita in quel del gradus, che comincia a costruire un Castrum, fortificando il nucleo urbano. Anzi, abbiamo notizie di tre cinte murarie.

A seguito delle invasioni barbariche (401-408 Alarico, Attila 452), parte della popolazione troverà rifugio sulla costa, non si sa quanti abitanti avesse Grado in età romana, sede vescovile inclusa. Nel 476 viene deposto Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d'occidente: la costa resta nell'orbita bizantina, legata a Ravenna. L'impero romano continua con Costantinopoli, fino alla sua caduta sotto i turchi nel 1453.

É con Giustiniano che viene riconosciuto il titolo patriarcale al vescovo di Grado, la Nuova Aquileia. Tre anni dopo la sua morte (568) arrivano i Longobardi in Friuli, che stabiliranno a Cividale la loro prima capitale, ma divideranno le due località dal punto di vista religioso. A Grado viene eletto Probino di Benevento, il cui monogramma è nell'altare del battistero. Risulta chiaro il tentativo di occupare anche la costa attraverso il vescovo. Benevento è, infatti, il ducato gemello di Cividale. Alla sua morte, viene eletto Elia, greco, che restaura le basiliche, consacrando il duomo a Sant'Eufemia, martire di Calcedonia, località dove si tenne il famoso concilio dei tre capitoli nel 451, ribadendo così l'ortodossia.
Nell'840 viene riconosciuto il ducato di Venezia con il Patto di Lotario, (Pactum Lotharii)   comprendendo 17 insediamenti: Tredici isole: Olivolo, Murano, Malamocco, Albiola, Chioggia, Torcello, Ammiana, Burano, Eraclea, Fine, Equino, Carole e Grado; quattro sulla terraferma: Cavarzere, Loreo, Brontolo e Fossone. Già verso il Mille, i Gradenigo, famiglia citata anche dal Caprin come aquileiese, cominciano a prendere posto a Venezia, dove verrà trasferita definitivamente il patriarcato nel 1451, dopo 61 patriarchi di Grado, che è ancora oggi sede vescovile. Alcuni di essi sono degni di nota: il primo ufficiale è Donatus piacentinus nel 717, Fortunato Tergestino 803-826, lascia un famoso testamento, dove descrive Grado al suo tempo, Andrea Dotto di Padova, che commissiona la pala d'altare, che oggi si può ammirare nell'abside del duomo.

É con il doge Sebastiano Ziani (1172-1178), il primo a distribuire denaro dopo la sua elezione, e poteva farlo, era ricco di famiglia, avendo esercitato attività mercantile e di "strozzinaggio" in denaro e pepe. Probabilmente, il nucleo più antico del castrum è quello attorno alla Basilica di Santa Maria, sembra la prima con questo titolo, e di modello orientale, avendo l'abside interna, con il passaggio tra i due muri (Abside e basilica). Il centro poi si allunga con il duomo e, molto distaccata, la basilica forse dedicata a Giovanni, come a Ravenna. E poiché anche questa basilica aveva il battistero, è probabile la presenza della doppia liturgia, ariana ed ortodossa.
Ma il trasferimento della sede patriarcale impoverisce ulteriormente l'economia dell'antico castrum, dove si sopravvive solo con la pesca, in un doppio microcosmo, quello della laguna e quello di città vecchia. Tant'è, che parlata, e tradizioni religiose sono spesso diverse. Anche il dialetto gradese-lagunare risulta molto più duro di quello parlato nelle calli. Di origini paleovenete, potrebbe essere il ceppo madre di tutti i dialetti veneti della costa. Anche alcuni cognomi sono antichissimi. P.e. Lugnan deriverebbe da Lughnasad, festa celtica del 1° agosto, o Lauto, attestata da un'iscrizione romana del I-II sec. d.C, conservata al Museo Archeologico di Aquileia: Lucio Cornelio Lauto remori, un distinto insegnante di retorica, rinvenuta a Belvedere. L'isolamento ha conservato anche alcuni tratti somatici, che si possono confrontare con quelli romani nel museo. Le omonimie sono numerosissime, tant'è che "la nominansa", il soprannome era (è) indispensabile per rintracciare la persona (vedasi “la ballata dei soninomi”).

I pescatori avevano un sistema di simboli per contrassegnare gli oggetti loro appartenenti e non confonderli con altre famiglie.
In laguna, si viveva nel "cason", nato come rifugio e trasformato nel tempo in abitazione, che rappresenta l'adattamento dell'uomo all'ambiente, ultimo retaggio delle capanne del neolitico. Fatto con un'intelaiatura di legno, ricoperta di canna, che doveva essere "de fìumera", tagliata a mano, seccata ed annodata. Non aveva aperture verso nord, per difendersi dal freddo, una piccola finestra, una porta a sud. Se l'isola è abbastanza grande, se ne possono fare due o tre, utilizzandoli anche come magazzino per le reti. La pesca seguiva i ritmi delle stagioni e delle maree. L'acqua si muove quattro volte al giorno, alta e bassa si alternano e sono collegate alle fasi lunari. Con luna piena e nuova si ha la massima ampiezza in cm, con i quarti di luna l'acqua sta quasi ferma, si dice “xe fele". La parola viene probabilmente dal tedesco fehlen=mancare, cioè manca movimento d'acqua. La stagione della pesca andava da primavera (novellame, seppie), estate (di tutto, specialmente sardelle da salare per l'inverno), autunno (sogliole e passere). D'inverno si andava a caccia con lo "sciopeton", uno spingardone che si metteva a prua, spesso aveva solo 1 colpo, e le anatre venivano poi distribuite un pò a tutti i familiari.

Si pesca con le reti (fatte, rammendate, pulite, tutto a mano), con la togna, col parangal (palamide), cò la fìossina, anche solo con le mani: fiapà, ghipà e guà (pesca del ghiozzo). Non si sa da dove derivi la parola ghipà, forse fiapà vuoi dire tastare con la mano. I "casoneri" tornavano a Grado solo tre volte all'anno: Nadal, Pasqua e i Santi Patroni, Ermagora e Fortunato, 12 luglio.

La giornata iniziava alle cinque di mattina, la nonna recitava la preghiera dei "mantini", la "raccomandasion de l'anema" e altre, trasmettendole ai più piccoli. Durante il giorno spesso si recitavano canti e salmi liturgici. Prima di cena, il rosario. Nelle calli, si insegnavano ai figli anche alcune norme di dottrina, quali i 5 precetti generali della Chiesa, le 7 opere di misericordia spirituale e corporale, i 7 vizi capitali, i 10 comandamenti, con particolare riferimento al quarto “onora il padre e la madre se vuoi vivere bene e a lungo sopra la terra”. E la campana accompagnava il trascorrere del tempo.